Di Margherita Marchioni
Lella Costa è una delle attrici di teatro più amate dal pubblico italiano. I suoi monologhi fanno il sold-out in tutta Italia e, qui a Bologna, è ormai più che decennale il rapporto instaurato con il palcoscenico dell’Arena del Sole. Ho iniziato a seguirla nel 2000, quando andava in scena con “Precise Parole”, ispirato all’Otello di Shakespeare, e da allora non l’ho più abbandonata. A folgorarmi sono state proprio quelle sue precise parole, la sua capacità di catturarti per due ore intere di spettacolo, senza stancarti. Lella sa farti ridere e riflettere allo stesso tempo, ti fa sentire arricchito e un po’ più saggio ogni volta che ti alzi dalla poltroncina in platea. Il suo nuovo spettacolo – “RAGAZZE” – sarà a Bologna dal 24 al 29 marzo (per informazioni http://www.arenadelsole.it/). L’ho intervistata e abbiamo chiacchierato del suo amore per il palcoscenico e per i classici, ma anche di politica e di quel mistero buffo che sono le donne, ancora una volta protagoniste in “Ragazze”.
photo © Orazio Truglio
Cominciamo dal suo nuovo spettacolo. La linea narrativa parte da Calvino e dalla sua “altra Euridice”. Perché proprio Calvino? C’è un motivo particolare per cui ama questo scrittore?
Credo che amare Calvino sia, per quanto mi riguarda, assolutamente inevitabile. E’ uno degli autori più straordinari e più molteplici della nostra letteratura, per cui riesce sempre a sorprenderti. In realtà l’incontro con Calvino è avvenuto quando una mia amica pittrice, che stava lavorando sul mito di Euridice, mi ha suggerito questo tema. Mi sono resa conto che poteva essere una bella storia che facesse da filo conduttore a uno spettacolo incentrato sulle donne, sulle figure femminili. Mi ha consigliato di leggere questa “altra Euridice” di Calvino, che ha un punto di vista assolutamente folgorante. Ho estrapolato solo tre momenti dal racconto di Calvino, che però sono presi dall’inizio, dal centro e dalla conclusione, e poi, da lì, ho cercato alcune delle rivisitazioni più famose del mito di Orfeo e Euridice, anche etiche, come Rilke, o musicali. Tutto questo è stato un pretesto per mettermi a ragionare non tanto di relazione tra uomini e donne, ma proprio di identità femminile, di dignità, di visibilità. Ho tentato di fare il punto sulla situazione delle donne in questo momento, cercando di sfuggire all’attualità, alle polemiche della cronaca italiana, cercando di avere uno sguardo più alto, ma anche molto più divertito. Penso sia uno dei più divertenti tra i miei spettacoli, è sicuramente molto coinvolgente.
Rimanendo su Calvino, mi è capitato di leggere la sua lezione americana sulla “leggerezza”. In questa lezione Calvino definisce lo scrittore come colui che usa la leggerezza della parola per sconfiggere la pesantezza del mondo. Lei crede che questo possa essere anche il ruolo del teatro?
Le lezioni americane di Calvino, in particolare quella sulla leggerezza, sono talmente vicine a me da averci incentrato uno spettacolo intero, “Precise Parole”, che era la riscrittura di Otello. E’ un tema a me davvero molto caro. Ritengo che il teatro dovrebbe e potrebbe svolgere questo ruolo. Sicuramente è quello che cerco di fare con il mio teatro ed è quello che ho visto fare nel teatro, ad esempio, di Peter Brook, un altro che è riuscito a far volare i classici apparentemente più pesanti o più complessi. Spero di non perderla mai come lezione, perché penso che sia indispensabile oggi per affrontare qualsiasi forma di narrazione. Questo non significa sfuggire alla complessità e neanche alla drammaticità. Si tratta di dare un passo lieve e danzante alle storie che si vanno a raccontare.
Le ragazze del suo spettacolo sono donne che non stanno ferme, che non si accontentano, che esplorano. Nella sua vita professionale c’è stato un momento in cui ha sentito il bisogno di mettersi in gioco e di non accontentarsi?
A me sembra di averlo fatto un po’ sempre, nel senso che sono partita con un piccolo successo come cabarettista o attrice comica e, anziché capitalizzare quello, sono andata a cercare una complessità narrativa a teatro, magari all’inizio molto semplice, perfino ingenua, fino ad arrivare a fare “Amleto” nella scorsa stagione. Mi sono messa in gioco anche perché credo sia doveroso nei confronti del pubblico rinnovarsi, per non essere scontati. A volte rischiando anche di deludere. Puoi trovare quello che ti dice che preferiva lo spettacolo precedente, il che è del tutto legittimo, ma io riterrei più offensivo riproporre sempre la stessa cosa.
A proposito del suo “Amleto”, ho trovato un commento su internet allo spettacolo. Glielo leggo: “Lella Costa in Amleto non è politica per nulla. Ah, lontani i tempi scanzonati di Pier Doge”. E’ d’accordo? Pensa che il suo approccio teatrale alla politica sia cambiato nel corso degli spettacoli, a partire da "Precise Parole" in poi?
Io credo che questa sia una piccola sciocchezza, nel senso che si pensa sempre che uno voglia metterci la politica a tutti i costi. Il Pier Doge di “Precise Parole” nasceva dal fatto che il Doge di Shakespeare usava esattamente lo stesso linguaggio di Berlusconi. Cioè diceva una cosa e un attimo dopo la smentiva, esattamente come se niente fosse. E’ da lì che veniva, non era l’operazione opposta. In “Amleto” non c’era la possibilità di inserire questo tipo di riferimento, non ci sarebbe stato il motivo di mettercelo. Sarebbe stata una parodia e una forzatura. Le battute felici nascono quando c’è una felicità di coincidenze. Sicuramente può essere cambiato il mio rapporto con la politica, però ho sempre voluto avere un rapporto con la politica alta e non con quella condizionata dalla cronaca. Se il mio “Amleto” era lontano da questo tipo di battute, allora “Ragazze” è anni luce, perché Berlusconi non viene mai citato, nemmeno una volta.
Finalmente non lo sentiremo per un po' allora…
Già! Un po’ di tregua almeno in teatro!
Durante l’intervista alle Invasioni Barbariche con Daria Bignardi ha detto che noi italiani importiamo tutte le stronzate americane. Quanto vorrebbe poter importare anche la loro scelta presidenziale? Pensa che qui in Italia avrebbe successo una scelta di quel tipo o verrebbe schiacciata?
Se penso all’attuale politica in Italia, credo che sarebbe impensabile, adesso. Questa, però, non è solo colpa di chi ci governa, che è stato comunque, nel bene e nel male, scelto da una grossa percentuale di italiani. E’ anche colpa di chi avrebbe dovuto costruire dei modelli di politica alternativa. Obama non nasce dal nulla, nasce da un’antica tradizione di vera democrazia in cui vale il principio che se uno non governa bene lo si manda a casa. E’ esattamente l’opposto di quello che succede da noi. Temo che riproporre il modello “Obama” sarebbe impensabile da noi, ma mi sembra anche che nessuno ci abbia pensato. E’ questa la cosa che mi avvilisce di più. Perché uno può dire “Beh, perderemo, però perderemo portando avanti un sogno un po’ più alto”, e invece no, siamo sempre lì. La cosa più spaventosa della politica italiana è la sua totale autoreferenzialità. Sono sempre e solo gli stessi a fare e disfare le stesse cose, ormai lontanissime dalla vita dei cittadini.
Tornando alle donne e alla cronaca di questi mesi, si parla tantissimo delle violenze che subiscono e di come proteggerle. Poi però si legge sui giornali che la prima causa di morte per malattia tra le ragazze è l’anoressia. Pensa che, forse, si dovrebbe anche pensare a come proteggerle dai canoni sbagliati trasmessi dalla società?
Ovviamente, assolutamente sì. Le faccio notare che la causa di morte che viene in assoluto prima di ogni forma di cancro è la violenza domestica. Questo è il dato su cui bisogna riflettere. Hai un bel da proteggere le donne da quello che incontrano fuori. Perché poi, in fin dei conti, è anche un modo per rinchiuderci di nuovo in casa e, visto che è un periodo di crisi e c’è poco lavoro, è proprio questo quello a cui aspirerebbero: sarebbe tanto bello che le donne tornassero a fare quello che han sempre fatto. Forse bisognerebbe aiutare l’autostima delle donne, il loro senso di dignità e di orgoglio e smettere di considerare inevitabile il fatto di essere massacrate di botte, usate, sfruttate e ammazzate fra le mura domestiche. Questa mi sembrerebbe, forse, una vera emergenza. A parte il fatto che è spaventoso che lo stupro solo recentemente sia stato dichiarato per legge un reato contro la persona e non più contro una morale. Ce n’è molta di strada da fare in questo senso.
Sempre con Daria Bignardi lei parlava delle signore che vengono a salutarla in camerino e le chiedono del personaggio di Reva, di “Sentieri”, che lei doppia. Secondo lei come fanno a venire a teatro e a vedere anche una soap-opera? Pensa siano conciliabili come realtà?
Assolutamente sì e guai se non lo fossero. Nel bene e nel male la fiction televisiva è l’equivalente dell’ormai perduto raccontarsi le storie nelle aie, nei cortili o nelle piazze di paese e, quindi, è qualcosa che serve anche a monitorare un’evoluzione dei costumi. Io, che doppio “Sentieri” da tanti anni, ho visto scientemente intraprendere delle battaglie e affrontare dei temi all’interno della soap-opera. Non mi dimenticherò mai che Camilla Cederna, che parecchi anni fa venne mandata dall’Espresso a fare un servizio sul mondo del doppiaggio, si invaghì perdutamente di “Sentieri”, al punto che, quando non riusciva a vederlo chiamava la direttrice di doppiaggio e si faceva raccontare gli episodi. E io, da quel momento, siccome ho stimato molto Camilla, mi sono sentita completamente assolta. Evviva “Sentieri”! Anche perché non dimentichiamo che questo tipo di trame narrative sono scritte dai più bravi del mondo e vanno a pescare negli archetipi più antichi e più classici. Ci ho anche fatto un pezzo di spettacolo su questa cosa. In “Beautiful”, appunto, ritrovi gli schemi narrativi di Antigone, con i fratelli e le sorelle che si sposano sempre e solo tra di loro. E’ sempre la stessa roba. Se funziona da 2.500 anni un motivo ci sarà.
Rimaniamo sul tema del doppiaggio. Mi sembra che si tratti di un mondo opposto a quello del palcoscenico: si vive perennemente dietro le quinte.
Certo, si vive dietro le quinte e si è al servizio dell’attore che doppi. Devi rispettare quello che dice lei o lui. Però è una tecnica che è interessante saper padroneggiare.
C’è qualcosa nel doppiaggio che il teatro non le dà?
No!... Beh, forse un po’ di piacevole buio. Uno dei problemi del teatro è il fatto di avere le luci concentrate sul palco e, magari, i tuoi occhi un po’ ne soffrono. Ma solo quello!
Passiamo ad un tema più serio: dopo tredici anni dalla prima rappresentazione, non è stanca di dover essere ancora “Stanca di Guerra”?
Io ero stanca dall’inizio. Quello che mi sgomenta è che quello spettacolo, che tredici anni fa parlava di qualcosa che si sapeva che c’era, ma che non ci riguardava particolarmente, non passa mai di moda e parla di una realtà che si sta avvicinando. La guerra è sempre più vicina a noi. Pensiamo a quello che sono stati il Kosovo, la guerra nella Ex Jugoslavia, la Cecenia, per non parlare dei teatri di guerra più classici, quelli mediorientali. E’ un ben triste primato poter dire “io ci ho pensato da prima e ve l’ho raccontato prima”. Forse la consolazione è che, quando recito “Stanca di Guerra”, mi rendo conto che la coscienza collettiva se ne occupa. E’ un tema rispetto al quale ci si sente in dovere di avere un’opinione, una posizione. Si cerca di capirlo e di affrontarlo. Almeno questo. Prima o poi riusciremo, spero, ad allontanarlo definitivamente.
Un’ultima domanda: ha qualche rimpianto nella sua carriera teatrale? C’è qualcosa che voleva fare ma che non è ancora riuscita a fare?
Beh, ci sono sicuramente delle cose che non sono riuscita a fare ma che spero di avere il tempo e l’energia di fare. Credo di essere stata estremamente fortunata, anche perché mi sono inventata un modo di fare teatro che è l’unione totale tra i miei modi espressivi e i contenuti che mi interessa metterci dentro, quindi direi che devo solo ringraziare.
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